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I beni comuni – commons in inglese – sono quei beni che vengono utilizzati e goduti da una collettività di persone (pascolo, bosco, parco, condominio, paesaggio, clima, foreste, fiumi). Il possesso o la proprietà comune dei commons è l’origine della difficoltà della loro gestione, perché gli utilizzatori non possono essere esclusi nel loro utilizzo, ma il consumo di alcuni può ridurre la disponibilità per gli altri membri di una collettività. Nel linguaggio della scienza economica, i beni comuni sono beni non escludibili ma rivali, sono una versione di bene pubblico al quale manca la non-rivalità. Gli economisti se ne sono occupati soprattutto dalla prospettiva della sempre probabile distruzione dei beni comuni, poiché il risultato della combinazione di non-escludibilità e rivalità è la possibile distruzione del bene.

Landscape (1925–1928) by Vincent van Gogh. Original from The National Gallery of Art

I beni comuni stanno progressivamente diventando sempre più scarsi e decisivi, soprattutto i beni comuni globali, ma con la loro rilevanza civile e politica non cresce il loro spazio nella scienza economica, e di conseguenza nelle politiche economiche. In realtà la loro storia teorica ha più di un secolo. Nella teoria economica i beni comuni fanno infatti la loro comparsa nel 1911, grazie ad un articolo di Katharine Coman sul primo numero della rivista economica scientifica più importante, l’American Economic Review – “Some Unsettled Problems of Irrigation”. Dopo una lunga eclisse i commons sono ritornati al centro della disciplina economica solo alla fine del secolo scorso con un’altra donna economista (e premio Nobel), Elinor Ostrom. In quel primo articolo del 1911 ritroviamo già le tre principali note della natura dei beni comuni: era uno studio sull’acqua, in una prospettiva storica, scritto da una donna. L’acqua è ancora oggi al centro del dibattito sui beni comuni, ne rappresenta il paradigma anche perché a differenza dei beni economici non ha sostituti: nota è la battuta di Lanny Bruce: “Ho inventato l’acqua in polvere, ma non so dove scioglierla”. 

Elinor Ostrom Di © Holger Motzkau 2010, Wikipedia/Wikimedia Commons

La prospettiva storica è poi essenziale, perché per capire come gestire i beni comuni dobbiamo domandarci da chi, quando e come sono sorti, e come sono riusciti a conservarsi nel tempo. I beni comuni sono le sentinelle delle radici delle comunità e delle civiltà, e senza la risorsa della memoria collettiva non si capisce né il sostantivo (beni) né l’aggettivo (comuni). Per gestire bene questi beni occorre avere figli e nipoti, oppure amare quelli degli altri e saper intravvedere con occhi diversi quelle e quelli che non sono ancora nati, o che sono nati altrove. E infine la terza nota è la dimensione femminile. Non è un caso che all’inizio e alla fine (per ora) della teoria dei commons troviamo due donne. I beni comuni sono essenzialmente una faccenda di relazioni, tra persone e tra le persone con la terra e il cosmo. Senza un’attenzione alla dimensione relazionale della vita e dell’economia, una relazione che attraversa il tempo e le generazioni, i beni comuni prima non si vedono, poi non si comprendono e infine si distruggono. Le donne hanno un primato nell’attenzione intrinseca ai rapporti, alla cura e alla trasmissione della vita; il loro sguardo e carne legano tra di loro le generazioni e le affratellano. 

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L’economia capitalistica fa una grande fatica a comprendere i beni comuni perché non affronta, in genere, i problemi in prospettiva storica (né geografica), non vede relazioni ed è tutta definita all’interno del registro maschile della razionalità – l’homo oeconomicus è maschio. Tanto che mentre il paradigma economico classico (quello che va Adam Smith a J.S. Mill) metteva tra i fattori produttivi la terra insieme al lavoro e al capitale, quello neo-classico ha eliminato la terra, ed è quindi passato da un mondo a tre dimensioni ad uno bidimensionale, è entrato in una “flatlandia” senza profondità, volume, tempo. Una terra non più vista è poi diventata una terra distrutta. Così la principale, se non unica, prospettiva economica sui beni comuni è la denuncia della loro distruzione, a partire dall’ormai classico testo di Hardin sulla “tragedia dei beni comuni” del 1967, articolo molto citato, ma raramente letto in tutta la sua complessità e tragica ambivalenza.

Trust within reason - by Martin Hollis

I ragionamenti più interessanti relativi ai beni comuni iniziano quando vogliamo capire e salvare i beni comuni e crearne di nuovi, e in questo riuscire a vedere che la loro dimensione relazionale è essenziale. Essendo beni creati, usati e custoditi insieme, per poter dire “è mio” siamo costretti a pronunciarlo coralmente, trasformando il “mio” in “nostro”, e subito in “di tutti”. 

Nella creazione e gestione dei beni comuni c’è dunque inscritta una norma di reciprocità. Come ci ha mostrato il filosofo inglese Martin Hollis (Trust within reason, 1998), la tipica reciprocità dei beni comuni risponde alla “logica dell’abbastanza”. Quando decido di donare del mio per realizzare un “nostro”, non pretendo garanzie contrattuali né rassicurazioni che tutti gli altri miei concittadini facciano altrettanto; al tempo stesso, ho bisogno però di pensare e di credere che “abbastanza” concittadini facciano come me, perché se pensassi di essere l’unico, o quasi, a donare sangue o a pagare le tasse, sarei fortemente tentato a non farlo più. Molti, infatti, fanno proprio così. Molti, sì, ma non tutti. Se in una comunità non esistono delle persone che, per qualche ragione, sono capaci di andare oltre questa logica di reciprocità (pur importante e necessaria), i beni comuni non nascono e non si mantengono. In questi “cittadini starter” è all’opera un tipo particolare di logica, quella che possiamo chiamare del “meglio io solo che nessuno”. 

Sanno che la loro azione civile è rischiosa, spesso soggetta a derisione perché considerata ingenua, e forse sfruttata dagli opportunisti; ma, avendo a cuore quel bene comune e il Bene comune, preferiscono essere i soli ad occuparsi di quel bene piuttosto che vederlo morire, sperando (non pretendendo) che la loro azione sarà imitata domani. Ѐ la presenza indispensabile della gratuità rischiosa e vulnerabile, incorporata soprattutto negli “starter”, che spiega e svela l’etimologia del bene comune. Comune proviene da cum-munus, dove “cum” ci dice l’insieme e “munus” dice, ad un tempo, dono e l’obbligo. I beni comuni sono faccenda di doni ma anche di obblighi verso gli altri, le future generazioni e quelle passate che ci hanno lasciato in custodia i loro patrimoni (patres-munus), ma anche l’obbligo nei confronti di sè stessi, l’obbedienza al richiamo tenace della nostra interiorità e coscienza.

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Per tutte queste ragioni i beni comuni sono difficilmente gestibili dal solo mercato capitalistico, perché ci sarebbe bisogno di mercati civili e quindi relazionali basati sulla reciprocità. Ѐ quantomeno molto triste, se non scandaloso, continuare ad assistere silenti e rassegnati agli speculatori che si stanno appropriando di fonti energetiche, acqua, terra comune, foreste, materie prime, ma anche del suolo pubblico delle nostre città, dove la loro ricerca del massimo profitto su beni non loro perché di tutti, diventa un’ulteriore tassa implicita per i cittadini, una tassa però che non alimenta le casse del comune ma quelle di lontani azionisti. 

Boundaries Image by freestockcenter on Freepik

La domanda allora diventa: Quando i nostri Comuni (nomen omen) daranno vita ad un’alleanza con la società e le imprese civili per gestire senza scopo di lucro ma in modo efficiente il suolo, l’acqua, il verde, le strade? E quando gli Stati prenderanno coscienza che la mercificazione (molto più di privatizzazione) dei beni comuni è una via miope e senza pensiero economico e sociale profondo?

La società di mercato capitalistico (o for-profit), invece, sa produrre molto bene, e sempre di più, i “beni di club”, quei beni che a differenza dei beni comuni sono esclusi per chi non è proprietario o associato. I beni di club (pensiamo ai quartieri privati) sono creati e gestiti tenendo a bada e ben lontani gli esclusi, soprattutto i poveri, da cui si proteggono con diritti di proprietà, cancelli, e sempre più guardie private. Ѐ la regola fondamentale della “porta aperta” che ha impedito alle cooperative di diventare beni di club. 

Non dimentichiamo, poi, che nella nostra epoca un’alta forma di bene comune è dar vita ad un’impresa, dove qualcuno corre dei rischi per creare lavoro e ricchezza per tanti, e beni per tutti – una malattia del nostro tempo è la progressiva trasformazione delle imprese da beni comuni a beni di club. 

Saremo capaci di vivere insieme, e di vivere bene, finché sapremo vedere, creare e non distruggere i beni comuni, che sono la pre-condizione e l’humus anche dei beni privati. Ma abbiamo un estremo bisogno di antichi e nuovi “starter”, cittadini responsabili capaci per motivazioni intrinseche di generare e custodire i beni comuni, il Bene comune, di tracciare sentieri di vita, per loro e per tutti. 

Luigino Bruni

Luigino Bruni

Fondatore della Scuola di Economia Civile è professore di Economia alla Libera Università degli Studi Maria Santissima Assunta di Roma ed all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano di Firenze.
Si occupa di Microeconomia, Etica ed Economia, Storia del Pensiero Economico e Felicità in Economia e delle tematiche legate all’Economia Civile, alla Reciprocità e alla Gratuità.
Conduce la trasmissione Benedetta Economia su TV2000.

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