. La giustizia della fraternità.

Spunti per un modello giuridico di fraternità

Abstract: il fine della giustizia è quello di garantire la buona convivenza; la giustizia non è solo attribuzione a ciascuno di quanto gli spetta, né semplice superamento della vendetta, bensì conservazione del legame fraterno tra i membri della comunità (sia quando la persona è parte di un contratto o vittima di un reato o coinvolta nell’azione di un pubblico potere). L’articolo propone, così, un modello di giustizia – la giustizia della fraternità – già implicitamente presente nel nostro ordinamento, nonché nel diritto classico, considerando i recenti orientamenti della legge e della giurisprudenza verso un “diritto mite” e richiamando, altresì, il dibattito alla costituente e le riforme sul tema, per proporre la giustizia della fraternità quale metodo e prassi per giudici, avvocati ed altri operatori del diritto.

Sommario:

  1. La tendenza fondamentale del nostro tempo: il diritto mite
  2. Nel diritto civile: il principio della buona fede
  3. Nel diritto penale: la giustizia riparativa
  4. Nel diritto amministrativo: l’esercizio condiviso del potere pubblico
  5. Nel diritto tributario: l’autotutela obbligatoria
  6. Conclusioni. Profilo sintetico finale.

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La tendenza fondamentale del nostro tempo: il diritto mite.

“Siamo miti di fronte al nostro prossimo”

(N. Bobbio, Elogio della mitezza, 46)

Il cammino verso una società fraterna passa, al pari della libertà e dell’uguaglianza, anche per il sentiero del diritto.

Infatti, l’evoluzione dello spirito del nostro tempo giuridico si sta sempre più indirizzando verso un diritto “mite”, più idoneo a coniugare la tecnica giuridica con la conservazione dei rapporti umani: in quest’ottica la legge, sostanziale e processuale, non è tanto una forza che prevarica la violenza commessa (una forza “più forte”), quanto un’etica della virtù contrapposta al criterio dell’efficacia imperativa della legge [Centrale è l’originalità del pensiero di G. Zagrebelsky in Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, edizione 2024, per il quale l’’applicazione della legge da parte dei giudici è oggi ben altro compito che quello di semplici «bocche della legge».]

Questo modello di giustizia realizza il punto d’incontro con la triade degli ordinamenti moderni, di libertà-uguaglianza-fraternità, in quanto, da un lato, promuove lo spontaneo adempimento della norma, dall’altro, garantisce l’uguaglianza del diritto, stabilendo la giusta relazione tra i soggetti, e, infine, sviluppa la fraternità, laddove preferisce dare suggerimenti o indicazioni e, quindi, non porre regole tassative di comportamento.

La regola della fraternità è espressione del comune destino degli uomini ed offre, pertanto, all’operatore del diritto contemporaneo un nuovo criterio di giustizia, che supera la logica tradizionale, di derivazione aristotelica, del giudizio di equivalenza [È nota la declinazione della giustizia classica in commutativa (che impone di restituire a ciascuno ciò che ha precedentemente dato) e distributiva (che impone di attribuire a ciascuno ciò che gli è dovuto, in proporzione ai propri meriti)].

La fraternità giuridica chiede l’empatia, perché vuole suscitare in colui, il quale ha in mano i destini dei suoi simili, quel grado umano di relatività del giudizio finale, frutto dell’inserimento spirituale del diritto nella congerie della vita.

Nei paragrafi che seguono si darà ragione dell’immanenza di questo principio di fraternità giuridica nei fondamentali campi del diritto.

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Nel diritto civile. Il principio della buona fede.

“Difendendo la personalità come substrato del diritto, il riconoscimento della proprietà è fatto nell’interesse di tutti e di conseguenza gli eventuali abusi del godimento sono colpiti”

(F. Dominedò, Ass. costituente, intervento alla seduta del 25.9.1946)

Il caso. Un appaltatore costruisce un edificio, rispettando il progetto e le direttive del committente, ma si accorge, nel corso dei lavori, che l’opera presenta dei vizi progettuali (il posizionamento delle porte e delle finestre è troppo vicino agli angoli dell’edificio e ne compromette la stabilità). Terminata la costruzione, l’appaltatore chiede il pagamento del prezzo concordato per le opere eseguite secondo quanto stabilito nel contratto, adducendo di avere diligentemente rispettato, ex art. 1176 c.c., l’obbligo contrattuale per il quale si era impegnato.

Secondo la dottrina civilistica, il principio della buona fede consiste nell’obbligo di ciascuna parte contrattuale di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio [C.M. Bianca, Il contratto, vol. 3, pag.477. La buona fede, peraltro, è implicitamente presente nelle norme del codice civile sulla correttezza delle parti nel contratto (artt. 1175, 1375, 1362 c.c.)].

La buona fede è un obbligo di salvaguardia dell’interesse altrui e di lealtà del comportamento, il quale trova fondamento nel principio di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione.

Ne consegue che la buona fede prescinde dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali e da espresse norme di legge [Cass. III sez. Ord., n.9220 del 02-04-2021], e si esprime, mediante, ad esempio, obblighi di informazione e di avviso sulla regolarità della prestazione; in tal modo, muta il postulato classico della responsabilità civile legato al principio di imputabilità (articolo 1218 c.c.), in quanto la fraternità estende la responsabilità anche per l’omessa cura degli interessi altrui [S. Zamagni, La fraternità come principio di ordine sociale in Bene Comune, rivista online, 31 dicembre 2020.]

La buona fede presiede, allora, a un compito sociale di argine alla ricerca del profitto individuale a discapito del benessere generale [A. Moro, Ass. cost. seduta del 3 ottobre 1946 “è effettivamente insostenibile la concezione liberale in materia economica…Non è possibile permettere che gli egoismi si affermino, ma è necessario porre la barriera dell’interesse collettivo come un orientamento e un controllo di carattere giuridico. Ed è nell’ambito di questo controllo che lo Stato permetterà delle iniziative individuali, finché rientrino nell’ordinamento generale, di svolgersi liberamente”.]

Di recente, la Corte cost. ha affermato che la buona fede “vincola il creditore ad esercitare la sua pretesa in maniera da tenere in debita considerazione, in rapporto alle circostanze concrete la sfera di interessi che fa riferimento al debitore” (sent. n.8/2003 del 1° febbraio 2023).

Sulla base di quanto esposto, è possibile, perciò, giungere alla soluzione del caso prospettato. È compito dell’appaltatore, che agisce in buona fede, avvisare il committente dei vizi dell’opera consapevolmente riscontrati, con la conseguenza che, in caso di mancata comunicazione, chi ha ordinato la costruzione dell’edificio può legittimante rifiutare il pagamento.

La buona fede, dunque è fonte di fraternità, in quanto lega i soggetti ad un rapporto personale e comunitario [Il contratto, cit. pag.473, nota 5.], non solo sul piano morale, ma anche quale principio giuridico.

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Nel diritto penale: la giustizia riparativa

“Non si tratta di definire una pena entro certi limiti, ma di creare una tale struttura sociale, un tale costume, per cui il sistema degli illeciti e delle pene venga ad essere configurato in una luce nuova, nell’ambito di una società diversa da quella attuale”

(Moro, Ass. costituente intervento alla seduta del 25.1.1947)

Il caso. Una donna decide di interrompere una relazione sentimentale e viene uccisa per vendetta dal suo ex compagno, il quale occulta il cadavere dopo averne dato crudele scempio. Il partner, reo confesso, condannato a 30 anni di reclusione, chiede e ottiene di essere ammesso al percorso “di consapevolezza” previsto dalla riforma Cartabia del 2021 per il recupero dei detenuti. È il primo caso in Italia.

La pena, secondo l’art. 27 della Costituzione [L’art. 27 Cost., ult. comma, dispone che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.], adempie a tre funzioni: è retributiva, in quanto la sanzione è determinata dalla gravità del reato, è general-preventiva, in quanto è una deterrenza alla reitera ed ha, infine, una funzione special-preventiva, poiché tende alla rieducazione del condannato. A quest’ultima funzione provvede la giustizia riparativa, introdotta dalla legge delega n. 134 del 2021 ed attuata con il d.lgs. 150/2022 (artt. da 42 a 67). Questa particolare forma di esecuzione della pena è costituita, come disposto dall’art. 42, da “ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”.

Già nei lavori della Costituente è dato riscontrare il modello di giustizia della fraternità: “La pena, se obbedisce a criteri di giustizia, deve anche obbedire a criteri di carità, di fraternità. Ed è bene che la società, nel momento in cui toglie il più alto bene al cittadino, quello della libertà, gli possa tendere la mano caritatevole, perché sia ricuperato, restituito al consorzio umano; e sia ricuperato non solo il delinquente occasionale, come diceva l’onorevole Crispo, ma anche il delinquente per tendenza, anche il delinquente più feroce, perché, per noi cristiani, l’anima è un bene che può essere sempre recuperato e la coscienza umana può sempre risollevarsi alla visione dei problemi soprannaturali” [G. Leone, Assemblea costituente, seduta del 27 marzo 1947.]

L’esito riparativo è certamente raggiungimento di un fine giustiziale fraterno; esso è ricostruzione del legame spezzato tra vittima, reo e comunità (in modo simbolico, con dichiarazioni, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla società, oppure materiale, come il risarcimento del danno).

Il meccanismo previsto dalla legge è bifasico: a) ammissione, per qualsiasi reato, del Tribunale competente del reo alla procedura, b) redazione ed attuazione di un programma riparativo presso i Centri per la giustizia riparativa, nonché presso la Conferenza locale per la giustizia riparativa.

Il risultato favorevole del programma riparativo può provocare, a seconda del grado e dello stato del procedimento penale: 1) la circostanza attenuante di cui all’articolo 62 comma primo, n. 6, che comporta una diminuzione della pena; 2) la remissione tacita di querela ai sensi dell’articolo 152 co. 2, n. 2 c.p.; 3) la sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p..

L’adozione di questa misura è conforme alla prassi eurounitaria, sia a scopo deflattivo del contenzioso penale, sia per prevenire la recidiva del reato, spingendo i rei confessi alla consapevolezza delle condotte illecite perpetrate [Ad esempio, la Decisione Quadro n. 2001/220/GAI del 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, comprende talune misure, che potrebbero attenuare gli effetti del reato e stabilisce che sia ricercata una soluzione negoziata tra vittima e autore, attraverso progetti di mediazione con professionisti formati e qualificati.]

La riparazione si realizza in modo bilaterale, con l’intervento di un mediatore tra l’autore del reato e la vittima, e in modo comunitario, facendo dialogare l’autore del reato con la comunità (famiglia, cerchia di amici, colleghi di lavoro, paese o quartiere), il cui tessuto è stato lacerato dalla condotta criminale [Il primo esempio di giustizia riparativa moderna si ebbe a inizio anni ’70, nel cd esperimento di Kitchener, dal nome di una cittadina dell’Ontario ai confini tra il Canada e gli Stati Uniti. Due ragazzi, responsabili di danneggiamenti, anziché essere sottoposti al programma rieducativo standard (studio, attività ricreative, colloqui a sfondo psicologico), furono invitati a svolgere un programma riconciliativo, sulla base di incontri con le famiglie colpite dai danneggiamenti e con l’impegno di risarcire i danni attraverso il lavoro.]

La giustizia riparativa, dunque, si pone nel mezzo della polemica tra il facile perdonismo occulto di certe riforme del diritto penitenziario, che esasperano il grido di giustizia della comunità sociale, e la vendetta da realizzarsi con pene esemplari, che blocca chi la reclama nel recinto della rabbia e del dolore senza fine [F. Occhetta, Le radici della giustizia, 2023, 88 “Certo, molto dipende dalla volontà delle parti di accettare di incontrarsi, ma il tentativo va fatto. Del resto, qualora gli effetti della giustizia riparativa non dessero gli effetti sperati, è sempre possibile introdurre come extrema ratio la pena tradizionale”.].

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Nel diritto amministrativo: l’esercizio condiviso del potere pubblico

“La possibilità di stabilire ulteriori forme di controlli popolari sulla pubblica Amministrazione, secondo le esigenze fatte presenti dagli onorevoli presentatori, non è affatto esclusa”

(E. Tosato, Ass. costituente intervento del 24.10.1947)

Il caso. Un docente di istituto scolastico rimuove il crocifisso dalla parete dell’aula, così contravvenendo ad una circolare del dirigente scolastico che aveva recepito una richiesta di affissione del simbolo proveniente dagli studenti riuniti in assemblea. Il docente rivendica la propria libertà di coscienza, basandosi sul principio di laicità dello Stato.

Nel caso in questione concorrono più interessi in gioco, quali il principio di laicità dello Stato, il potere autoritativo del Preside; il potere consultivo dell’organo collegiale [L’art. 12 D.P.R. 297/94 prevede, infatti, che “Gli studenti della scuola secondaria superiore e i genitori degli alunni delle scuole di ogni ordine e grado hanno diritto di riunirsi in assemblea nei locali della scuola”. All’art.13 co. 1° si precisa che “Le assemblee studentesche nella scuola secondaria superiore costituiscono occasione di partecipazione democratica per l’approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti”.]

Il criterio della reasonable accommodation prevede che la regola non sia imposta dall’esterno, ma nasca da un confronto tra i soggetti portatori di diversi interessi.

Dall’applicazione pratica di tale criterio possiamo comprendere la soluzione offerta dalla giurisprudenza nel caso concreto. La Corte di Cassazione, anziché fissare la regola di condotta da seguire, stabilisce che “la comunità scolastica può decidere di esporre il crocefisso in aula”, tuttavia, nel “rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un «ragionevole accomodamento» tra eventuali posizioni difformi” [C. Cass. (SS. UU., sent. n. 24414 del 9 settembre 2021) “Nella fattispecie, che qui ci occupa, della affissione derivante da una richiesta degli studenti, la mera percezione visiva del crocifisso è il risultato dell’esercizio di un diritto fondamentale da parte degli alunni che fanno parte della stessa comunità. Non è configurabile discriminazione per il fatto che il docente non è stato risparmiato, nello spazio pubblico condiviso, da quella esposizione e da quella percezione visiva. Lo spirito di tolleranza e il rispetto della coscienza morale degli alunni, cui il docente è tenuto a conformare il suo comportamento, valgono proprio a fronte di opinioni o convinzioni da lui non condivise” (pag. 58 par. 28.3).]

Scaturisce, quindi, da questo diritto “mite” [Cfr. N. Bobbio, Elogio della mitezza e V. Zagrebelsky, per il quale la dottrina del “diritto mite” postula che ai giudici “spetta ben altro compito che quello di essere semplici ‘bocche della legge’” (Il diritto mite, 1992).], espressione di un innato bisogno di “dolcezza” nel giudicare, un intervento fraterno della giustizia, orientato al sostegno della persona e, al contempo, alla naturale esigenza di conservare la pace nelle reti sociali di appartenenza.

Il ragionevole accomodamento è, dunque, un criterio di giustizia della fraternità, in quanto esclude la prevaricazione di un soggetto sull’altro e, nel contrasto tra l’interesse del singolo con quello della comunità, favorisce il secondo, chiedendo, tuttavia, alla comunità di non trasformarsi in un potere collettivo, bensì di cercare un punto di incontro con la sensibilità individuale dissenziente.

 

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Nel diritto tributario: l’autotutela obbligatoria

“il sistema tributario nel complesso deve essere informato al principio della progressività”

(S. Scoca, Ass. costituente intervento del 23.5.1947)

Il caso. Una società riceve un avviso di accertamento, con il quale si contesta la mancata annotazione separata dei contratti stipulati con operatori appartenenti a Paesi inclusi nella c.d. black-list. L’accertamento diviene definitivo per mancata opposizione. Tuttavia, la società riesce a reperire i documenti che provano la corretta annotazione e chiede all’Agenzia delle Entrate di annullare in autotutela l’avviso di accertamento. L’Ufficio, però, emette atto di diniego dell’istanza, in quanto l’atto contenente il rilievo non è stato impugnato per tempo.

In base al diritto vigente, la risposta negativa dell’Agenzia delle Entrate è legittima, dal momento che l’autotutela tributaria è una facoltà e non un obbligo per l’Amministrazione finanziaria, in quanto è interesse generale che le entrate pubbliche siano certe e garantite nel rispetto dei modi e dei termini, previsti dalla normativa fiscale.

Tale criterio può, d’altro canto, dare luogo a situazioni di ingiustizia sostanziale.

Al riguardo, la Legge Delega per la riforma del sistema tributario (all’art. 4, co. 1, lett. h, L. n. 111/2023), ha previsto l’introduzione dell’obbligo per il Fisco di agire in autotutela obbligatoria in caso di evidenti situazioni di danno per il contribuente, anche se l’atto tributario sia divenuto certo e definitivo [La riforma risponde anche a S. Scoca, Ass.cost. seduta 23.5.1947, per il quale il sistema fiscale può generare “una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria. Non è questo il momento più opportuno per attuarla, ma credo necessario che si inserisca nella nostra Costituzione, in luogo del principio enunciato dall’articolo 25 del vecchio Statuto, un principio informato a un criterio più democratico, più aderente alla coscienza della solidarietà sociale e più conforme alla evoluzione delle legislazioni più progredite”.]

Il nuovo articolo 10-quater dello Statuto del contribuente, L. n.202/2000, in vigore dal 4 gennaio 2024, disciplina, in attuazione della delega fiscale, l’esercizio del potere di autotutela obbligatoria da parte dell’amministrazione finanziaria.

La stessa Corte Costit. ha, peraltro, affermato nella sentenza 181/2017 che: “La previsione legislativa di casi di autotutela obbligatoria è dunque possibile, così come l’introduzione di limiti all’esercizio del potere di autoannullamento”.

Invero, l’art. 53 Cost. va inteso per il contribuente, sia in senso positivo (obbligo di pagare le imposte previste dalla legge), sia in senso negativo (divieto di pagare imposte non dovute in base alla legge).

Se, infatti, è interesse pubblico quello di ottenere maggiori entrate per lo Stato, ciò non deve avvenire a discapito dei principi di capacità contributiva e di progressività (art.53), per i quali ciascuno deve contribuire alle risorse comuni in base alla effettiva ricchezza in concreto posseduta [G. La Pira, Assemblea Cost. seduta 19.11.1946: “Quando invece si dice che lo Stato può imporre delle prestazioni…, non si dà alcuna garanzia per evitare che lo Stato esorbiti nel limitare le libertà dei cittadini”.]. Il contribuente, inoltre, non può essere sottoposto all’imposizione, se non in presenza di fatti che esprimano la sua capacità contributiva.

Appare evidente come questa forma di giustizia sia improntata al principio di fraternità, sia perché i due soggetti (Fisco e contribuente) agiscono su di un piano di assoluta parità, sia perché il Fisco è obbligato a ritirare l’atto impositivo ingiusto, senza alcuna discrezionalità, in quanto l’equità rende l’interesse pubblico recessivo rispetto all’equa attribuzione del carico fiscale.

All’obbligazione tributaria, dunque, intesa classicamente quale esercizio del potere impositivo dello Stato a fronte di una mera posizione di soggezione del cittadino, si sostituisce “un Fisco con cui interloquire in modo corretto” [E. Ruffini, Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 a oggi, 2023, per il quale: “il fisco è alla base del patto democratico. Serve più informazione e più facile accesso ai dati, perché quando rinuncio a parte del mio reddito devo sapere perché lo sto facendo” (cfr. www.confartigiato.it, Evento del 23.10.2023)], di modo che tra Fisco e cittadino si instauri un rapporto di reciproca lealtà.

La collaborazione tra Fisco e contribuente può essere, perciò, portatrice di maggiore consapevolezza del comune destino di popolo e di nazione, e, quindi, di necessaria compartecipazione dei cittadini alla spesa pubblica (welfare, protezione civile, difesa, istruzione).

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Nel diritto costituzionale

“Ciò non impedisce che quando si sia constatato che le regioni danno buona prova, si possano, con emendamenti successivi, ampliare i poteri delle regioni”

(L. Einaudi, Ass. costituente intervento del 27.7.1946)

Il caso. Una regione a statuto differenziato promuove questione di legittimità costituzionale, contestando che le norme statali di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), di cui alla L. 21 aprile 2023, n. 41, avrebbero leso le competenze legislative e amministrative costituzionalmente garantite alla Regione Puglia, con violazione dell’art. 117 Cost.. In particolare, la regione sostiene che l’attribuzione ad organi dello Stato per il compimento d’urgenza, con fondi finanziati dal PNRR, di “opere di infrastrutturazione” volte a garantire la sostenibilità di un importante bacino portuale regionale sotto il profilo ambientale, economico e sociale, insistendo su ambiti materiali di competenza legislativa regionale.

Se la Corte Costituzionale ha di recente dichiarato l’illegittimità della norma statale, lo ha fatto solo per la mancanza di una preventiva intesa con la Regione, circa le modalità di ripartizione delle risorse destinate agli interventi individuati, riconoscendo così la competenza statale alla progettazione ed esecuzione di opere pubbliche su beni regionali.

Proviamo indagare cosa sarebbe successo (o succederà) se la regione avesse ottenuto l’autonomia differenziata.

L’art. 116 comma 2 della Costituzione prevede la possibilità per ogni regione di vedersi attribuite, mediante un’intesa con lo Stato, materia di competenza statale, quali, ad esempio, la realizzazione di opere infrastrutturali. Sarebbe stato quindi compito della regione realizzare le opere in attuazione del PNRR nella fattisecie delineata e la Corte avrebbe annullato la normativa statale, riconoscendo in capo all’ente territoriale la piena titolarità dei poteri, senza neppure richiedere la collaborazione partecipativa degli organi statali.

Il regionalismo, se pone problemi di attuazione pratica, corrisponde in liena generale ad una torsione del nostro tempo verso l’attribuzione alle regioni del ruolo di rappresentare e governare le differenze, ovvero di riordinare l’assetto territoriale e di riorganizzare le funzioni secondo le specificità locali [L. Antonini, Il regionalismo differenziato, pag.40, 2000.]

Detto processo creativo si inquadra in un più ampio progetto, sostenuto dai filosofi contemporranei della Biopolitica, di “rivitalizzazione delle istituzioni” tramite una revivescenza della “carica energetica” data dalla rinnovata relazione tra istituzioni e vita, ossia tra bìos e nuovo orizzonte di senso, laddove la forza della vita trova forma nelle istituzioni, nel senso che la valorizzazione delle differenze si coniuga con l’esigenza di organizzare la società [R. Esposito, Istituzioni, 148, 2021.]

Tuttavia, si osserva, per non creare diseguaglianze fra i territori, potrebbe essere previsto nelle future intese il rispetto del principio di cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali, anche al fine di garantire uniformità di applicazione alle iniziative adottate dall’Unione europea [Questo criterio è già assunto nella legge n.59/97 di attuazione del federalismo amministrativo.]

In tal modo si verrebbe, da un lato, a confermare il principio di unità nazionale, dall’altro, a meglio raggiungere il “bene comune”, costituito dal libero esplicarsi delle autonomie territoriali, più sensibili alle esigenze della popolazione locale [Principio presente da sempre nell’arte di organizzazione della polis; cfr. in Aristotele Τά πολιτικά, III, 16, 1287 (20-25), per il quale compito del potere è di permettere la felicità nella diversità. Uno svilppo di ciò si trova nel pensiero di Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, c.71 “contra rationem…si impediretur a gubernatione civitatis homines agere secundum sua officia”].

L’esplicazione del principio di collaborazione si ha nel principio di leale collaborazione tra le istituzioni della repubblica.

Una giustizia della fraternità in ambito isittuzionale condurrebe, pertanto, a sciogliere inevitabili contrasti normativi a favore della differenziazione e della sussidiarietà, capovolgendo il rapporto tra autorità centrale e territoriale a favore di quest’ultima.

D’altro canto, la fraternità, quale comunza di interessi nel perseguimento del fine della felicità sociale, è un portato naturale della Biopolitica, in quanto il bìos, caratterizzato nel nostro tempo, dalla differenziazione delle qualità dei territori, viene mediato dalle istituzioni, allo scopo di eliminare ogni pericolo di disgregazione della comunità verso la fuga ad un “nuovo feudalesimo” [N. Bobbio, Teoria generale della Poltica, III, VI, 290.]

 

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Conclusioni. Profilo sintetico finale.

Ci si può chiedere se questo tipo di ius dicere possa riecheggiare la nozione evangelica di giustizia, per la quale “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 20).

La giustizia della fraternità è chiamata laicamente a questo compito e la Costituzione italiana, unitamente alla legge ed all’evoluzione giurisprudenziale, rappresentano una traduzione fedele e paradigmatica di esercizio del disporre e del decidere, con la quale si supera l’asettico rispetto della norma imposta.

Non sembrano, pertanto, peregrine le suesposte tracce di una giustizia mai disgiunta dalla fraternità [S. Satta, Un giudizio di conciliazione ovvero la giustizia di Evaristo, in Riv. dir. comm., 1963, 230: “se manca l’umanità del giudizio, tutto si riduce a un gioco, la scienza, la scuola, la giustizia”.]

. D’altronde, la nostra epoca è caratterizzata da pretese di giustizia tendenti a demonizzare l’avversario processuale, laddove, invece, la scoperta di una giustizia ispirata da spirito fraterno conduce al ritrovamento della bellezza di avere a cuore l’altro, offrendo la prospettiva di un diverso modo di definire il contrasto.

Il modello di giustizia fraterna, come descritto, realizza la solidarietà, ad esempio, nel diritto civile, con il principio di buona fede, che prevede il sacrificio del proprio interesse; nel campo penale, con la giustizia riparativa, che risana con la carità le relazioni ferite; nel diritto amministrativo, col principio del componimento ragionevole, che promuove una comunità basata su regole comuni di condotta, create dal basso e condivise; nel diritto tributario, infine, promuovendo l’equità in fatto tra Fisco e contribuente, nel diritto costituzionale sollecitando un nuovo accordo tra Stato ed autonomie.

Si può, allora, addirittura ipotizzare che un maturo spirito di fraternità possa giungere ad un risultato di liberazione dall’imprescindibilità della legge, ossia un sistema dove la democrazia si presenta come governo “mite”,  come metodo che vuole favorire tra i consociati nuove posture di gentilezza, dolcezza, benevolenza, tolleranza.

La giustizia della fraternità, dunque, diviene in tal modo viatico essenziale, affinché giustizia e pace si incontrino anche all’interno dell’ordinamento giuridico contemporaneo.

 

Fabrizio Urbani neri

Avvocato dello Stato

https://presidenza.governo.it/AmministrazioneTrasparente/ConsulentiCollaboratori/allegati_2020/Neri_Urbani_Fabrizio_CV.pdf

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