1 Parlare di “sport inclusivo” significa, innanzi tutto, prendere posizione rispetto alla seguente alternativa: con tale espressione ci riferiamo a un certo modo di giocare – o di far giocare – oppure, più in generale, al significato autenticamente umano della pratica sportiva? Detto altrimenti: rispetto al variegato mondo del gioco agonistico, lo sport inclusivo rappresenta una forma particolare, quasi di nicchia, o una costante essenziale? A seconda di come rispondiamo a questa domanda, costruiamo infatti due diverse visioni dello sport.
La prima è la più comune: ordinariamente si pensa ai contesti sportivi solo come luoghi all’interno dei quali gli individui si confrontano in modo esigente per far emergere i talenti e premiare i più bravi. Non è un caso che lo sport moderno, come ha fatto notare Allen Guttmann, ruoti attorno al concetto di record, ovvero alla ricerca della massima prestazione possibile. Così intesa, la pratica sportiva finisce per attuare severi processi di selezione che tendono a premiare i più capaci e a emarginare quanti non sono abbastanza abili o sufficientemente competitivi. Per cercare di arginare questa tendenza a escludere i meno adatti, all’interno della variegata offerta sportiva vengono proposti contesti nei quali gli scartati possono comunque praticare attività fisica: luoghi a basso indice competitivo o situazioni disegnate su misura per chi non trova posto all’interno della normale offerta sportiva.
La seconda presuppone invece che l’elemento inclusivo sia un tratto strutturale della pratica sportiva, ovvero che alle radici del gioco la cooperazione preceda la competizione. Può sembrare strano che, all’interno di una attività la cui prima regola stabilisce cosa si debba fare per primeggiare, la vittoria non risulti essere l’elemento cardine attorno al quale si struttura l’esperienza ludica; eppure, se si osserva con attenzione la dinamica del gioco competitivo, ci si accorge di come altri elementi siano altrettanto e forse più essenziali. Lo si vede bene nelle dinamiche tipiche del gioco libero: quando qualcuno domanda di unirsi a una partita in cortile – laddove questo tipo di esperienze è ancora possibile – chiede di poter giocare (quindi di poter esser-parte, stando-assieme). Non è un caso che i partecipanti a un gioco competitivo siano detti “concorrenti”, ovvero persone che corrono assieme verso un comune obiettivo. E, solitamente, c’è sempre spazio per un nuovo compagno di gioco.
Ancora, nell’entrare all’interno dello spazio del gioco, ciascuno ne accetta implicitamente le regole e si assume la responsabilità di proteggerlo, evitando quei comportamenti e quelle situazioni che lo renderebbero impossibile. Essere un giocatore, quindi, significa collaborare alla creazione di uno spazio comune che rende possibile – e gratificante – l’esperienza ludica. Poi, certamente, all’interno di questo orizzonte collaborativo trova spazio l’elemento agonistico (il tentativo di vincere), ma senza mai divenire totalizzante, pena il deterioramento del gioco stesso. Anche in questo caso, l’esperienza del gioco libero ci offre alcuni spunti di riflessione interessanti: chi perde solitamente chiede la rivincita che il vincitore concede con piacere, perché continuare a giocare è il vero fine dei partecipanti. E se le squadre sono sbilanciate e l’esito è troppo scontato, allora si mescolano le carte per rendere il risultato più incerto e il gioco più divertente. Vincere, potremmo chiosare, è certamente importante, ma non è affatto l’unica cosa che conta. Ciò che conta davvero è poter continuare a sperimentare il piacere del gioco.
2 Quando, come troppo spesso accade, il valore vittoria assume invece uno spazio preponderante, esso finisce per fagocitare gli altri valori in gioco. La ricchezza dell’esperienza ludica viene così ridotta a ricerca della massima performance possibile con conseguenze tutt’altro che desiderabili.
In primo luogo, quando vincere è l’unica cosa che conta, i meno dotati – quelli che, senza l’imbarazzo del politicamente corretto chiameremmo gli “scarsi” – sono destinati a una progressiva marginalizzazione, finendo per trovare posto solo in panchina. Certo, si continua ad affermare il diritto al gioco e a decantare il potenziale inclusivo della pratica sportiva, ma sono vuoti esercizi retorici. Le scelte quotidiane dell’allenatore, dei dirigenti, delle federazioni guardano invece ai risultati sul campo, avendo come scopo principale quello di mietere successi, accreditandosi, sul mercato delle società sportive, come una squadra vincente, capace di attirare sempre nuovi tesserati. Alle sofferenze degli esclusi si aggiungono così i danni derivanti dall’ipocrisia di uno sport che, a parole, promuove i valori dell’amicizia, della solidarietà, dell’inclusione, ecc. mentre, nei fatti, si muove in direzione diametralmente opposta. E questa distanza tra parola e azione rappresenta forse il principale problema che il mondo sportivo è chiamato oggi ad affrontare.
In secondo luogo, quando la vittoria assume un peso preponderante, si finisce per ritenere praticabile tutto ciò che consente di primeggiare, anche l’imbroglio, spesso mascherato da “furbizia”. Quante volte, ad esempio, si insegna ai ragazzini a simulare per guadagnarsi un vantaggio nei confronti dell’avversario. Certo, a parole si predica il fair play, ma di fatto la lezione appresa sul terreno di gioco insegna che ci sono cose che vanno fatte, ma non dette, ed altre che si dicono, senza necessariamente metterle in pratica.
Un terzo aspetto da considerare riguarda il fatto che se il valore di uno sportivo si misura solo in termini di risultati, quando questi non arrivano poco conta ch’egli abbia dato il meglio di sé, impegnandosi al massimo: chi perde è un perdente. La nostra società, così presa dal celebrare il successo, dimostra in modo molto persuasivo il suo disinteresse per gli sconfitti ai quali, tutt’al più, viene proposto di dedicarsi ad attività ricreative a basso indice agonistico.
Infine, un aspetto che andrebbe maggiormente considerato riguarda la pluralità di forme che la pratica sportiva può assumere. Troppo spesso, infatti, parliamo di sport come se si trattasse di qualcosa di univoco mentre, in realtà, tale termine raccoglie una pluralità di forme tra loro assai diverse (ad esempio sport giovanile, amatoriale/dilettantistico, sport professionistico, ecc.). Ora, se parliamo di sport per tutti (sottolineando l’opportunità che lo sport rappresenti un ingrediente essenziale della vita personale di ogni bambino e di ogni ragazzo), se, soprattutto, riteniamo che tale centralità dello sport sia dovuta alla sua capacità di veicolare una pluralità di valori (che vanno dalla bellezza dello stare assieme alla capacità di maturare una serie di virtù interiori, fino alla promozione di valori civici quali l’inclusione e la solidarietà), non possiamo certo ritenere che il paradigma di riferimento possa essere quello dei grandi campioni, i quali per raggiungere il successo, hanno necessariamente sacrificato moltissimo sull’altare della massima prestazione possibile. Ancora meno lo sport business.
3 Uno sport davvero inclusivo deve muovere quindi da una premessa diversa, ovvero dall’idea che la cooperazione preceda e fondi la possibilità della competizione.
Il che non comporta una svalutazione della componente agonistica, elemento imprescindibile della pratica sportiva, ma la ricerca di un equilibrio tra i diversi valori che il gioco agonistico può promuovere. Non solo. Un tale modo di concepire la pratica sportiva si preoccupa di promuovere sia l’inclusione allo sport, sia l’inclusione attraverso lo sport. Un conto, infatti, è il diritto allo sport, ovvero la necessità di garantire a tutti la possibilità di accedere all’esperienza sportiva (indipendentemente dal talento agonistico), rimuovendo le barriere economiche e logistiche che impediscono di seguire le proprie inclinazioni sportive (ci si può trovare, infatti, nell’impossibilità di sostenere i costi dell’attività sportiva, ma anche a fare i conti con la mancanza di infrastrutture e, in generale, con una mancanza di offerta sportiva). Altra cosa è promuovere, grazie allo strumento dell’attività sportiva, processi di coinvolgimento di fasce di popolazione a rischio di esclusione. Penso a forme di disagio psico-sociale che hanno per protagonisti giovani e giovanissimi, ma anche all’opportunità di promuovere, attraverso lo sport, processi di inclusione di stranieri residenti nel nostro paese. Penso, più in generale, a come l’attività sportiva, soprattutto quella giovanile, può favorire i rapporti tra coetanei, cementare dinamiche comunitarie, favorire il senso di appartenenza e il senso di corresponsabilità. Valori preziosi che favoriscono processi di cittadinanza attiva e che, non a caso, giustificano gli importanti sforzi economici compiuti dalle diverse amministrazioni pubbliche. La Politica, infatti, ha un grande interesse nel sostenere e incoraggiare un’attività sportiva capace di promuovere virtù civiche, oltre che competenze motorie e corretti stili di vita. Ancora una volta però, la differenza la fa la presenza o meno di una precisa intenzionalità educativa e una coerenza tra parola e azione.
[Affinché nessuno resti escluso è necessario “fare spazio” alle diverse abilità, con una speciale attenzione nei confronti dei più fragili. Questo, però, richiede la disponibilità a “lasciare spazio” ad altri. Non a caso le regole del baskin prevedono che i normodotati con buoni fondamentali nel basket (ruolo 5) possano fare solo un numero limitato di canestri per tempo. Questo proprio per evitare che monopolizzino il gioco ma, al contrario, siano incentivati a mettersi al servizio di tutta la squadra. Quello che questa regola vuole veicolare è un’idea estremamente inclusiva di giustizia: giusto, infatti, non solo dare “a ciascuno il suo”, ma anche far sì che ciascuno possa offrire il proprio contributo, stante il fatto che non siamo tutti uguali e non abbiamo tutti stesse difficoltà. Riconoscere le differenze nel contesto di un’uguaglianza di valore non è un atto di generosità (né, tantomeno di buonismo o di assistenzialismo), bensì riconoscimento di pari dignità e valore in un contesto inclusivo nel quale nessuno debba sentirsi emarginato.]
Ora, è chiaro che il baskin non rappresenta l’unica risposta alla domanda che chiede come promuovere una cultura inclusiva attraverso lo sport. Abbiamo bisogno di una biodiversità sportiva che sappia soddisfare le esigenze e le attitudini di ciascuno. Però, il baskin ci mostra con grande forza persuasiva che, se abbiamo di mira un ben preciso obiettivo educativo, dobbiamo saper mettere mano alle regole del gioco, ovvero rendere tutto il contesto ludico coerente con le finalità che ci siamo prefissati di conseguire. Ancora una volta serve coerenza tra parole e azioni.
In conclusione, ritengo utile sottolineare come la lezione migliore che lo sport può offrire – quando praticato in modo intelligente – riguarda soprattutto il senso dello stare assieme: il gioco agonistico, infatti, è “spazio del noi” prima che “palcoscenico dell’io” (e nello sport, come nella vita, ciò che è comune promuove e protegge ciò che è mio). Il gioco istruisce una serie di relazioni interpersonali vincolanti che implicano doveri reciproci di lealtà, correttezza, solidarietà, ecc. La libertà del gioco si esprime dunque all’interno di legami che chiedono di essere riconosciuti e protetti, segnalando una sorta di anteriorità dei doveri (assunti) rispetto ai diritti (rivendicati). Una lezione di cui la nostra società, così sensibile al valore dell’autonomia individuale, ha oggi un gran bisogno. Non solo. Lo sport insegna a riconoscere nel vincolo e nella regola ciò che consente l’espressione dell’autentica libertà. Si può giocare, infatti, solo dopo aver accettato di stare alle regole; il che significa che essere liberi non comporta un processo di emancipazione dai legami, ma la capacità – e l’intelligenza – di legarsi bene, ovvero di condividere regole capaci di mettere ciascuno in condizione di dare il meglio di sé.
Per approfondire
Professore associato di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Udine, presidente dell’Istituto Jacques Maritain e direttore di “Anthropologica. Annuario di studi filosofici”.
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