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La sostenibilità è prima di tutto una questione di giustizia, di giustizia tra le generazioni. Infatti, lo sviluppo sostenibile, nella ormai famosa definizione data dalla Commissione Brundtland nel 1987, è quello sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare il fatto che quelle future possano fare altrettanto.
Ciò che una generazione può fare nel tempo che gli è dato dipende in misura decisiva da ciò che ha ricevuto dalla generazione precedente in termini di dotazione di diverse forme di capitale: capitale naturale, prima di tutto, cioè l’insieme di risorse naturali (suolo, aria, acqua, vegetazione, organismi viventi, ecc.) che forniscono all’umanità i cosiddetti “servizi ecosistemici”, i quali consentono e supportano la vita. E poi capitale umano, cioè l’insieme delle persone e di conoscenze, competenze, abilità, capacità relazionali di cui esse sono dotate. E poi capitale sociale, cioè le reti di relazioni che si stabiliscono tra le persone e fanno funzionare la società, consentendo ad essa di conseguire i fini che si è data. E infine capitale economico, cioè l’insieme di beni, attrezzature, edifici, infrastrutture, ecc. che vengono impiegati nei processi produttivi e consentono, insieme al lavoro, di produrre beni e servizi finalizzati a soddisfare i bisogni umani. Se una generazione usa più capitale di quello che produce nel proprio arco di vita, allora la generazione successiva dovrà partire con una sorta di handicap, cioè con un capitale inferiore, il che renderà più difficile soddisfare i suoi bisogni ed evitare che tale processo di graduale impoverimento intergenerazionale prosegua nel corso del tempo.
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Dall’avvio della rivoluzione industriale, nel XVIII secolo, e specialmente dopo il secondo dopoguerra, l’umanità è stata capace di far crescere in maniera straordinaria, mai vista nella storia, il capitale economico, il capitale umano e il capitale sociale, anche se per quest’ultimo si sono alternati momenti straordinari di sviluppo delle istituzioni, nazionali e internazionali, a fasi di conflitti tra Paesi e al loro interno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumento del reddito e del tenore di vita, della salute, dell’istruzione, del benessere fisico e mentale, della speranza di vita, di istituzioni democratiche, e di molto altro. E questo è accaduto per un numero sempre maggiore di persone, anche se con crescenti disuguaglianze tra ricchi e poveri, ma anche tra giovani e anziani.
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Parallelamente, però, il modello di sviluppo adottato prima nei Paesi europei e negli Stati Uniti e successivamente da tutte le realtà geopolitiche del Pianeta ha depauperato il capitale naturale in maniera drammatica e per certi versi irreversibile. Il consumo di materie prime, la distruzione degli ecosistemi, le emissioni in atmosfera di sostanze inquinanti e di gas climalteranti, l’inquinamento delle falde acquifere e degli ecosistemi marini, l’estinzione di intere specie, la perdita di biodiversità hanno alterato in profondità il funzionamento dei sistemi naturali e di quelli climatici, innescando fenomeni fortemente non-lineari che provocano e provocheranno, se non verranno rimosse le cause che li hanno determinati, danni crescenti in termini di capitale umano, capitale sociale e capitale economico, minacciando il futuro dell’umanità e i risultati fin qui acquisiti.
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Ed eccoci al punto. Oggi, finalmente, con almeno 50 anni di ritardo rispetto agli allarmi degli scienziati, abbiamo piena e condivisa coscienza dell’insostenibilità del nostro modello di sviluppo, tutto centrato sul continuo aumento della produzione di beni e servizi, misurata attraverso il Prodotto interno lordo (Pil), al cui accrescimento sono orientate le politiche economiche in tutte le aree del mondo, o quasi. Ovviamente, come abbiamo detto, la crescente disponibilità di beni e servizi – sia privati che pubblici – ha consentito il cambiamento sopra brevemente descritto, ma immaginare che qualcosa come il Pil possa crescere all’infinito all’interno di uno spazio finito (la Terra) è semplicemente stupido. Eppure, è quello che abbiamo fatto e che, secondo alcuni, andrebbe fatto anche nel futuro. Se poi questa ricchezza non viene neanche distribuita tra tutti, ma è sempre più concentrata nelle mani di un numero limitato di persone, se per produrre questa ricchezza si generano immense quantità di scarti, fisici e umani (come ci ricorda Papa Francesco), allora capiamo che accanto alla insostenibilità ambientale esiste anche una insostenibilità sociale di questo assetto produttivo e di potere.
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Nonostante l’evidenza scientifica, tanti pensano ancora che tutto possa proseguire così. Pensano che l’aumento della ricchezza prodotta prima o poi porterà allo “sgocciolamento” verso il basso della ricchezza prodotta. Pensano che i mercati economici e finanziari si “aggiusteranno” autonomamente, trovando un nuovo percorso di sviluppo. Pensano che le tecnologie risolveranno tutti i problemi. Ma c’è anche chi, conoscendo i rischi che corre il nostro Pianeta e la nostra società, si sta facendo costruire dei bunker in Nuova Zelanda, dove rifugiarsi quando le rivolte dei più poveri verso i più ricchi metteranno a rischio le loro vite agiate, o spera di potersi trasferire sulle stazioni spaziali che qualcuno pensa di costruire nello spazio. E poi c’è chi vorrebbe tornare indietro nel tempo, quando non c’era la globalizzazione, non c’era l’euro, non c’era l’immigrazione, non c’era l’inquinamento, ecc. e così poter rivivere in un “età dell’oro” che in realtà non è mai esistita.
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Di fronte a tutto ciò ognuno di noi singolarmente e come società abbiamo quattro alternative: mantenere lo status quo, sperando che prima o poi “qualcuno” trovi una soluzione, un atteggiamento tipico di chi è soddisfatto della propria e non si preoccupa degli altri; oppure, accumulare abbastanza ricchezze per poter scappare altrove quando sarà il momento; oppure tornare a un assetto sociale ed economico passato, quando “noi” non avevamo questi problemi, anche se gran parte della popolazione mondiale si dibatteva in una condizione di mera sussistenza o di lotta per la sopravvivenza; oppure impegnarsi a fondo per cambiare il modello di sviluppo, realizzando un mondo sostenibile ed equo, cioè in grado di fornire benessere per tutti rispettando i limiti planetari, assicurando sia la giustizia intragenerazionale (cioè all’interno della generazione corrente) che quella intergenerazionale (cioè tra generazioni), cioè gli elementi che sono al cuore del concetto di sostenibilità.
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Credere nella quarta soluzione, cioè nella possibilità di un’utopia sostenibile, e impegnarsi per realizzarla richiede, in primo luogo, di riconoscere la complessità del problema, che ha evidenti dimensioni economiche, sociali, ambientali e istituzionali, strettamente interrelate fra di loro. Ciò implica una profonda trasformazione culturale, capace, in primo luogo, di riconoscere che le ragioni dell’economia non possono essere dominanti rispetto a quelle dell’ecologia, pena la distruzione dello stesso sistema economico. Che le ragioni della massimizzazione della produzione non possono essere dominanti rispetto a quelle della giustizia sociale, pena l’instabilità dell’assetto istituzionale. E così via. Ma richiede anche di investire risorse adeguate per ricercare soluzioni tecnologiche innovative e rivoluzionarie che rendano compatibili le esigenze di fornire adeguati livelli di beni e servizi a tutti con quelle del rispetto degli ecosistemi e della biodiversità attraverso energie rinnovabili, l’economia circolare, adeguate politiche sociali, ecc. Ma richiede anche di individuare nuove forme di governance, sia nel settore privato che in quello pubblico, per assumere decisioni che tengano conto della complessità di cui abbiamo parlato, dei principi di giustizia intragenerazionale e intergenerazionale, dell’interesse comune e non solo di quello individuale, così da orientare le decisioni alla sostenibilità nel breve e nel lungo periodo.
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È possibile cambiare? È possibile evitare il collasso ambientale, sociale, economico e delle istituzioni democratiche? È possibile collaborare seriamente, a livello locale, nazionale e internazionale per realizzare tutto ciò? E se sì, come si fa? Queste domande sono ben presenti nella mente di chi si batte per portare il mondo su un sentiero di sviluppo sostenibile utilizzando la “mappa” per raggiungere questo tesoro definita nel 2015 con la sottoscrizione da parte di 193 Paesi delle Nazioni Unite dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. L’Agenda 2030 è articolata in 17 Obiettivi (Sustainable Development Goals – SDGs) e in 169 Target, che andrebbero raggiunti entro la fine di questa decade. Essi riguardano dimensioni economiche, sociali, ambientali e istituzionali dello sviluppo, compresa la lotta a tutte le forme di disuguaglianza, prima di tutto quella di genere, e adottano una visione integrata del funzionamento degli ecosistemi e del sistema socioeconomico, in modo da assicurare un’adeguata trasmissione intergenerazionale di tutte le forme di capitale.
Insomma, l’Agenda 2030 rappresenta il punto più avanzato finora elaborato nella storia dell’umanità per descrivere una “visione di futuro” comune a tutti i Paesi del mondo, nonostante le diversità di culture e di forme politiche che li caratterizzano. Essa chiama tutte le componenti delle nostre società, dalle autorità politiche alle imprese, dalle organizzazioni non governative alle comunità locali e agli individui, a contribuire all’immane sforzo di cambiare in profondità gli indirizzi delle politiche pubbliche a livello nazionale e locale, le strategie e le scelte delle imprese e delle istituzioni finanziarie, i comportamenti di consumo e di risparmio, le relazioni sociali e i rapporti individuali.
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Il varo dell’Agenda 2030 ha stimolato l’impegno di tanti Paesi, di tante imprese, di parti importanti della finanza internazionale, di innumerevoli realtà del Terzo Settore, di un numero mai visto nel passato di individui in tutte le aree del mondo per realizzare uno sviluppo sostenibile. In molti Paesi essa è divenuta il paradigma rispetto al quale valutare le politiche pubbliche, le scelte aziendali, i comportamenti sociali e individuali. In nome dell’Agenda 2030 sono nate e si sono sviluppate collaborazioni impensabili solo pochi anni fa tra diverse componenti della società e dell’economia per ridurre l’impatto negativo dell’attività umana sul Pianeta e migliorare la vita delle persone e delle comunità; è stato avviato uno sforzo senza precedenti nell’educazione alla sostenibilità delle nuove generazioni; sono state adottate leggi a favore della transizione ecologica dei sistemi produttivi e per minimizzare l’effetto dell’attività economica sugli ecosistemi; sono state sviluppate tecnologie in grado di realizzare processi economici circolari; sono stati imposti alle imprese nuovi sistemi di rendicontazione del loro impatto sociale e ambientale; è progredita la legislazione per la tutela dei diritti delle donne e delle minoranze.
Purtroppo, nonostante tutto ciò, come dimostrano anche gli ultimi rapporti dell’ONU e dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), i progressi verso gli Obiettivi dell’Agenda 2030 sono stati parziali e temporanei: dopo il miglioramento registrato da molti indicatori dopo il 2015, la pandemia, i conflitti armati, a partire da quello in Ucraina, l’aumento dei prezzi delle materie prime indotto da quest’ultimo, l’inflazione e le tensioni geopolitiche internazionali hanno determinato negli ultimi anni un regresso per molti di essi in molte aree del mondo. Anche l’Unione europea, che pure è l’area più sostenibile del mondo e ha intensificato negli ultimi anni l’impegno per varare legislazioni e politiche per lo sviluppo sostenibile, ha visto progressi contenuti e incapaci di conseguire gli ambiziosi Obiettivi entro la fine di questa decade, mentre l’Italia ha visto regressi per un terzo degli Obiettivi e limitati avanzamenti per gran parte degli altri, decisamente insufficienti per migliorare la condizione degli ecosistemi, ridurre le disuguaglianze e assicurare uno sviluppo sostenibile.
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Il passaggio dalle parole ai fatti si è scontrato con le tante complessità della trasformazione dei sistemi socioeconomici e i costi che essa comporta. In varie parti del mondo, anche in Europa e in Italia, una parte dell’establishment economico ha deciso di opporsi a tale trasformazione in nome della (presunta) tutela degli interessi nazionali o della (certa) difesa dei propri interessi individuali, alimentando potenti lobbies che impediscono il varo di legislazioni finalizzate a realizzare la transizione ecologica o a ridurre le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Sono cresciuti i movimenti politici populisti, i quali rifiutano i valori di solidarietà e giustizia universale posti alla base dell’Agenda 2030. Hanno conquistato spazio i negazionismi sui temi della cura della salute e della lotta alla crisi climatica, i quali alimentano prese di posizione politiche e comportamenti individuali che mantengono lo status quo.
D’altra parte, anche in Italia è cresciuta la consapevolezza, specialmente tra i più giovani, della necessità di lottare seriamente contro la crisi climatica e le disuguaglianze. Giovani imprenditori pongono i principi della sostenibilità alla base delle loro iniziative; grandi e medie imprese si impegnano per modificare il proprio modello di business; nuove forme di collaborazione tra individui e tra comunità sono sperimentate e crescono alla ricerca di un modo diverso di produrre benessere, individuale e collettivo; il mondo del non-profit si pone ogni giorno a servizio della società, pur tra mille difficoltà; istituzioni finanziarie si dotano di nuovi strumenti per allocare le risorse di cui dispongono a favore di iniziative che assumono impegni sulle diverse dimensioni della sostenibilità.
Grazie al lavoro dell’ASviS, nel 2022 è stata modificata la Costituzione, emendando (per la prima volta nella storia repubblicana) anche i cosiddetti “principi fondamentali”. Infatti, all’art. 9 è stato previsto che tra i compiti della Repubblica ci sia anche la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità “anche nell’interesse delle future generazioni”, mentre all’art. 41 è stato previsto che l’attività economica privata non possa svolgersi in contrasto con l’ambiente e la salute. In questo modo, è stato introdotto in Costituzione il principio della giustizia intergenerazionale, che si affianca a quello della giustizia all’interno della generazione attuale, tutelato dall’art. 3.
A partire dal 2015, l’ONU e le sue diverse agenzie hanno spinto i Paesi membri ad assumere impegni concreti per lottare contro il cambiamento climatico, tutelare e ripristinare l’ambiente, accelerare il contrasto alle disuguaglianze, rendere effettivi i diritti delle giovani e delle future generazioni, insomma a realizzare in pratica l’Agenda 2030. L’OCSE ha elaborato numerose linee guida per orientare e coordinare le politiche pubbliche e le strategie delle imprese nella direzione dello sviluppo sostenibile, nonché per superare il PIL come misura del successo dell’azione umana sostituendolo con misure centrate sul concetto di benessere equo e sostenibile. L’Unione europea, a partire dal 2019, ha assunto l’Agenda 2030 come prospettiva complessiva della propria azione, adottando un insieme senza precedenti di strategie, direttive e regolamenti per cambiare in profondità l’orientamento delle politiche economiche, sociali e ambientali, nonché delle scelte delle imprese e dei singoli consumatori e risparmiatori a favore della sostenibilità.
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Nonostante le tante esperienze positive che stanno maturando, moltissima strada resta da compiere per realizzare uno sviluppo sostenibile. Per rafforzare e rendere vittorioso questo movimento trasformativo anche nel nostro Paese servono valori comuni, idee nuove, testimoni credibili, continuità, supporto e tanti altri ingredienti che la società italiana potrebbe generare se assumesse appieno la prospettiva, difficile ma entusiasmante, della sostenibilità a tutto campo. Se accettasse l’invito di Papa Francesco a quella conversione ecologica e all’impegno per lo sviluppo umano integrale di cui Egli parla nelle sue encicliche. Se decidesse di adottare le migliori pratiche già presenti, in Italia e in altri Paesi. Se ascoltasse la scienza e investisse nella ricerca e nello sviluppo di soluzioni in grado di trasformare in profondità il nostro modello di sviluppo.
Insomma, se credesse davvero che un Piano B è possibile e se contribuisse a definirlo, attuarlo e trasformarlo in un Piano condiviso da tutte e da tutti per cambiare un mondo ingiusto e insostenibile.
Ordinario di statistica presso l’Università Tor Vergata e co-fondatore e direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), ), una rete di oltre 300 soggetti della società civile creata per attuare in Italia l’Agenda 2030 dell’ONU. Già chief statistician dell’OCSE e presidente dell’ISTAT, è stato Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili nel governo Draghi e Ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta. È autore di oltre 130 articoli pubblicati su riviste nazionali e internazionali e di sette libri su temi statistici ed economici, tra cui L’Utopia Sostenibile (Laterza, 2018), Quel mondo diverso con F. Barca (Laterza, 2020) e I ministri tecnici non esistono (Laterza, 2023).
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