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La parola cosa significa:

Il lavoro in carcere dovrebbe avere la funzione di promuovere la reintegrazione sociale.

Il ruolo fondamentale del lavoro, sancito dall’art. 1 della Costituzione italiana, viene ribadito, con riferimento ai detenuti, dall’art. 27 comma 3, dove si prevede come finalità della pena quella di attuare la rieducazione del condannato, in vista del suo rientro nella società. Tra gli strumenti attraverso i quali viene perseguito questo obiettivo figura anche e soprattutto il lavoro, che dà modo ai detenuti di allargare le proprie competenze professionali, e la consapevolezza di poter avere più chances di inserirsi nel mondo del lavoro una volta liberi, abbattendo il rischio della recidiva.

L’apporto fondamentale del lavoro nella vita dell’individuo recluso ha trovato ulteriore specificazione nella legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, che parla di diritto-dovere al lavoro retribuito e privo di carattere afflittivo (art.20 comma 2), da garantire al maggior numero di detenuti con condanna definitiva (art. 20 comma 3), con modalità di svolgimento il più possibile analoghe a quelle utilizzate all’esterno del carcere (art. 20 comma 5), in modo da renderlo realmente funzionale al reinserimento.

Attraverso l’attività lavorativa retribuita il detenuto ha modo di provvedere al sostentamento proprio e della famiglia (in particolare i figli che non hanno colpa e soprattutto andare anche  contro il destino segnato ), di acquisire competenze e di aumentare la fiducia nelle proprie capacità, obiettivi importanti che dovrebbero aiutarli a cambiare stile di vita dopo la detenzione. Si genera anche dignità e una nuova identità nel tempo attraverso l’assunzione di ruoli, competenze e responsabilità.

I benefici che il lavoro penitenziario comporta sono notoriamente molti: innanzitutto a livello di sistema apporta un miglioramento sul grado della sicurezza nell’Istituto, in quanto costituisce una risposta alla condizione degradante di “Ozio Forzato” tipica della vita carceraria, che aumenta il consumo di medicinali e quindi è un ulteriore costo per la sanità.

Insieme ad altri percorsi che non si possono definire lavoro ma che svolgono comunque attività educative in misura maggiore rispetto ad altre attività culturali e di socializzazione che vengono parimenti offerte all’interno del trattamento rieducativo, perché fare un percorso che tenga conto delle responsabilità, dei ruoli, delle collaborazioni nel gruppo di lavoro aumenta l’accettazione delle regole del buon vivere delle comunità.

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Stato attuale riduzionista della sua interpretazione:

La percezione soggettiva all’interno del carcere, è caratterizzata da una reiterazione esasperante che finisce per dilatare la dimensione di un presente inesauribile e immodificabile.

Il detenuto, infatti, percepisce la pena in un eterno oscillare tra il passato colpevole che lo ha portato dentro e un futuro sperato, ma, in ragione dell’assenza di opportunità, inarrivabile, distante, spesso non progettabile. In questa condizione il tempo presente, fatto di gesti ripetuti in spazi limitati e separati, necessita la rimozione di tali condizioni volte a impedire la sofferenza e l’angoscia causata dal vuoto e dall’ isolamento.

Il diritto-dovere di lavorare per i detenuti si configura purtroppo come un privilegio, in cui risultano favoriti i detenuti che hanno pene più lunghe o perché individuati dagli educatori.

La possibilità di provvedere con il lavoro in carcere al proprio sostentamento e a quello del proprio nucleo familiare è limitata, dato che le poche opportunità vengono ripartite in modo da tenere “impegnati” quanti più detenuti possibili per un breve periodo di tempo, o con orari lavorativi part-time ma sempre in numero limitato rispetto al complessivo numero di detenuti. Infatti il lavoro in carcere tra le imprese e i lavori intramurari offerti dalle direzioni delle carceri è di circa del 5% nel 2021. Spesso molte attività formative avviate nelle carceri deludono le aspettative del lavoro, perché più concentrate sugli aspetti formativi e meno su quelli orientati al lavoro “effettivo” che purtroppo non si trasformano in concrete opportunità lavorative, deludendo ancora di più la speranza dei soggetti in stato di detenzione.

 

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Parte prospettica sulle sue possibilità e su cosa potrebbe essere in modo più generativo:

Favorire iniziative tese alla formazione delle persone adulte e minori sottoposte a provvedimento dell’autorità giudiziaria penale con la successiva creazione di opportunità lavorative permette di dare concreta attuazione ai principi contenuti nell’art. 27 della Costituzione Italiana.

Occorre, infatti orientarsi, verso un riconoscimento “sociale” dei percorsi di risocializzazione a partire da quelli avviati durante la detenzione fino a quelli attivati attraverso misure penali a carattere alternative e verso soluzioni che consentano di “tagliare i ponti” con il proprio passato mediante il reinserimento in un contesto sociale diverso da quello precedente.

In tale prospettiva è interesse degli Enti e soggetti del territorio promuovere forme di sinergica collaborazione istituzionale anche con il mondo delle imprese, delle cooperative e degli ordini professionali al fine di sviluppare progetti e azioni rivolti alle persone adulte e minori sottoposte a provvedimento dell’autorità giudiziaria penale.

Formazione e lavoro rappresentano gli strumenti principali per favorire il processo di inclusione sociale e l’adozione di modelli e s stili di vita che facilitino il reinserimento sociale che è di primaria importanza per la riduzione dei tassi di recidiva di circa dell’80% (dati al 2021 del Ministero della Giustizia).

Le politiche di sostegno al lavoro penitenziario non possono più essere messe in discussione. Una seria politica di reinserimento lavorativo dei detenuti, oltre ad essere imposta dalla Costituzione e dai trattati internazionali, può portare al raggiungimento di obiettivi importanti, purchè ben conseguita ed attuata.

Si consideri il risparmio “potenziale” derivante dalla circostanza del detenuto che lavora e intraprende percorsi di formazione e sarà un cittadino con probabilità assai minori di reingresso in carcere.

Si consideri il risparmio “attuale” (5% di detenuti), rispetto a quello “potenziale” (95%) derivante dai minori costi correlati al mantenimento di un detenuto ammesso al lavoro.

Si potranno realizzare i seguenti benefici, magari meno immediati e meno semplici da quantificare in termini:

  • minori costi economici (costo indicativo 60.000 euro l’anno per detenuto ),  connessi alla diminuzione del numero di reati 
  • minor numero di persone offese o danneggiate da condotte criminose, i reati infatti diminuiscono dell’ 80%, nel caso Made in Carcere si riducono di oltre il 92%
  • minor ricorso a misure di difesa sociale, che comportano investimenti importanti in termini di risorse umane e materiali.

Il lavoro dei detenuti presenta delle problematicità legate alla intrinseca vulnerabilità del lavorare ed alle modalità di prestazione dell’attività lavorativa, necessariamente condizionata dal “rapporto punitivo” al quale il detenuto solitamente purtroppo   è soggetto. Sia in termini logistici (edifico, tempo, edilizia penitenziaria, agenti non attrezzati dal punto di vista psicologico. Infatti il linguaggio predominante è quello della sicurezza e non quello dell’inclusione culturale e sociale.

Paradossalmente potrebbe essere un luogo costruttivo e rigenerativo, cosi come ad esempio l’ approccio di Made in Carcere.

Sono emerse tuttavia le buone potenzialità di sviluppo delle politiche di reinserimento lavorativo dei detenuti, testimoniate da alcuni dati incoraggianti e da alcune realtà d’eccellenza

Tali politiche non solo possibili, ma doverose, considerati i notevoli benefici sia per i detenuti che per la comunità nel suo complesso, connessi al reinserimento nella società civile di soggetti finora emarginati. Dato per acquisito il coinvolgimento di aziende e cooperative nel processo di privatizzazione del lavoro penitenziario, deve necessariamente cambiare la concezione del ruolo dei privati nel processo di reinserimento lavorativo dei detenuti. Così come il consumatore deve diventare consapevole di ciò che fa male all’ambiente e alla società, attraverso un approccio critico, etico e che guardi all’economia civile con un approccio anche di misericordia e perdono.

Deve risultare pur chiaro che l’attività imprenditoriale in carcere anche laddove intrapresa da cooperative sociali è pur sempre un’attività di tipo economico, che va pertanto gestita secondo logiche di mercato, volte, se non alla creazione del profitto, almeno alla sostenibilità sul piano economico dell’attività intrapresa. Laddove nell’ambito del terzo settore non è giusto parlare di profitto ma di benessere. Da qui nascono i vari indicatori legati all’impatto sociale generato come il Bil (Benessere Interno Lordo), il Fil (Felicità interna lorda) o il Bes ( Bisogni educativi speciali) ed altri.

Grazie a questi nuovi indicatori in Italia, si può creare (come Made in Carcere realizza) un cambiamento  sistemico e di approccio differente verso questi luoghi emarginati, dimenticati e degradati ma  che attraverso il “lavoro vero” possono diventare esempi concreti di rigeneratività dei luoghi, delle persone e delle comunità e respingere ogni forma di resistenza all’innovazione sociale.

Andrea Mongelli

Andrea Mongelli

Experienced CEO with a demonstrated history of working in the information technology and services industry. Strong business development professional skilled in Negotiation, Business Planning, Customer Service, Strategic Planning, and Business Development.

Luciana Delle Donne

Luciana Delle Donne

Ufficiale al merito della 🇮🇹 Repubblica italiana - Founder and CEO at Officina Creativa scs - brand: Made in Carcere | 2nd Chance

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